SILVIA VENTURI

Nell’iconografia delle danze macabre medievali, lo scheletro è un leggiadro ballerino, un cortese accompagnatore che tende la mano ai suoi invitati per condurli con passo leggero oltre l’estrema soglia. Nel fosco batter d’ali del tempo che falcia le messi d’uomini, si cela un movimento ipnotico, che attrae lo sguardo e lascia impietriti e, come in una vanitas, il rischio consiste nel prendere coscienza che saremo noi stessi vittime della stessa falce. La morte è un tabù e violare la tomba per vedere i colori opalescenti della decomposizione è una tentazione troppo forte per chi ha uno spiccato senso estetico.

Silvia Venturi, con curiosità da antropologa, va alla ricerca dell’elemento di grazia che si nasconde dentro la morte.
Con la perizia di un’imbalsamatrice fissa nel tempo il ricordo di chi non è più tra noi; il tempo che scorre ed erode la materia è sostanziale: è lo scarto, il residuo d’imperfetto che come una fragile patina si frappone tra noi e ciò che è stato, corrompendo la purezza del ricordo. Come il prodotto del tassidermista, ci cattura per il fatto d’essere un ponte teso tra la vita e la morte, un trompe l’oeil macabre.
Nelle bustine da tè e nelle paraffine dei ricordini funebri, si assapora il gusto fradicio della notte, si percepisce il sapore della terra bagnata del cimitero e dei personaggi notturni, anime vaganti destinate a consumarsi come falene sulle deboli fiamme dei ceri.
Nell’accumulazione delle identità c’è quasi l’ambizione di voler istituire una collezione, una catalogazione scientifica dei defunti. Le bustine, ingiallite e stampate, sono come una grande raccolta in vitro di specie catturate col retino al camposanto, un album teratologico nel quale il regno umano si mischia alle collezioni entomologiche. Verrebbe da pensare all’artista come alla proprietaria di una wunderkammer dove naturalia e mirabilia si combinano, nella quale la Scienza e la Biologia si mischiano in maniera del tutto spontanea ai fenomeni da fiera delle curiosità. In passato si assemblavano sirene e mostri mitologici, si presentavano ai curiosi preparazioni anatomiche, vestendole con gusto bizzarro, incorniciandole di pizzi e chincaglieria varia, allo scopo di rendere presentabile una materia altrimenti troppo fredda.
Silvia Venturi assembla, cuce e monta, con la sapienza combinatoria ed un’eleganza degna del XIX secolo, vecchie scatole, latte arrugginite, ali d’insetto, cotone e sottilissimi fili di rame, conserva i cadaveri d’insetto come un fragile tesoro, mitizzando la morte e racchiudendo nella fragilità dei materiali una allusione alla precarietà dell’esistenza, all’impermanenza della materia vivente.

Nello stesso fiume scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo.

«I miei lavori nascono dall’unione di vari elementi e materiali nell’intento di creare ibridi poetici che parlino di mondi interiori. Sono forti i richiami all’inconscio, al biomorfo, a tutto ciò che è nascosto, sepolto, segreto e che necessita di una paziente ricerca, di un ripiegamento su se stessi e di un viaggio abissale nel profondo dell’interiorità».

Nell’installazione Senza titolo del 2010, proposta per Gemine Muse di Ferrara, Silvia Venturi si confronta con il grande formato. Gli eleganti e delicati volumi della composizione ricordano i grandi nidi di ragno che intrappolano gli alberi di montagna. L’artista gioca sulla trasparenza di questi tunnel dal forte richiamo femminile, intrauterino, un pensiero che invade lo spazio rimodellando gli ambienti e trasformandoli in un luoghi perturbanti e accoglienti, ma di un’accoglienza da ragnatela, da trappola. L’eleganza della luce che filtra fra le trame umide ci proietta nel giardino dell’Eden, o in qualche paesaggio alieno da film di fantascienza. Nel suo lavoro c’è la pazienza artigianale, il tempo e la dedizione di colei che ha cucito a mano ogni singolo frammento di nylon di queste imponenti forme.

Sara Draghi
(dalla rivista: occhiaperti.net)

testo critico L.Gezzi

Silvia Venturi nasce a Bologna nel 1980. Si laurea in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di
Bologna. Nel 2005 vince il primo ‘Premio borsa di studio per l’arte contemporanea’ elargito dalla
Fondazione Collegio Artistico Venturoli di Bologna. Vive e lavora tra Bologna e Ferrara. Come molti
artisti della sua generazione Silvia Venturi ha posto attenzione al recupero della manualità nella
quale assume rilievo l’uso di svariate tecniche attraversate e sperimentate in ragione degli esiti
formali quanto dei contenuti che attengono all’opera. In tal senso la sua esperienza spazia in più
direzioni che includono l’incisione, la scultura, il ricamo su carta, il monotipo, l’installazione.
Tematiche ricorrenti nella produzione dell’artista sono la memoria, la morte, il ricordo per le quali
fa ricorso a materiali leggeri, impalpabili sottratti al mondo della quotidianità. Sono materie che
portano con sé il valore dell’esistenza rimandando sovente ad un vissuto personale. Valgono in tal
senso le bustine di tè, il cotone, la paraffina, i sottilissimi fili di rame quali medium di una poetica
di dichiarata introspezione nella quale la valenza emotiva assume un peso proprio nel contraltare
dell’evanescenza. Le opere presenti in mostra fanno parte di una serie di incisioni a rilievo su carta,
del 2004-2005, realizzate attraverso una leggera pressione che volutamente evidenzia la parte
positiva e quella negativa come un tutto basato sul rapporto introflessione-estroflessione. Si tratta
di incisioni a secco, vale a dire in assenza di inchiostro, generate da una matrice di rame per le
quali ha scelto di lavorare bianco su bianco. Il ricorso ad un colore di ascendenza zen, allusivo al
nulla ed al vuoto, non è per Venturi una misura casuale dal momento che sovente nella sua
esperienza si fa strada l’idea del vuoto, in particolare nelle sue sculture costituite, appunto, da
volumi vuoti Diversi sono gli spunti che queste incisioni offrono anche se il segno, netto e
minimale, reso con essenzialità, rimanda al filo labirintico riannodato nella parvenza di ganglio, un
intimo groviglio attraverso il quale ella allude alla vita.
Linda Gezzi